Eventi 2003
L'attività culturale
 

Società Letteraria
di Verona

levi sfumato.jpg (3964 byte)

La storia
La biblioteca
L'emeroteca
L'editoria
Gli organismi sociali

 

iovedì 8 maggio 2003

 

violinista ad auschwitz

Musica e sopravvivenza

intervengono

Jacques Stroumsa
 Leoncarlo Settimelli

 

Jacques Stroumsa

 

 

Jacques Stroumsa

Nato a Salonicco nel 1913, da genitori ebrei sefarditi, laureato in ingegneria e diplomato in violino in Francia, è stato deportato ad Auschwitz nell’aprile 1943, dove per un mese ha suonato nell’orchestra maschile di Birkenau. Trasferito succes-sivamente nel campo principale, è riuscito a sopravvivere lavorando presso l’ufficio di progettazione tecnica. Evacuato nel gennaio 1945 a Mauthausen, è stato liberato l’8 maggio 1945 nel sottocampo di Gusen II. Dopo un lungo periodo trascorso in Francia, sul finire degli anni ’60 si è stabilito a Gerusalemme, dove tuttora abita.

 

 Leoncarlo Settimelli
Musicologo, giornalista e regista, ha svolto intensa attività di ricerca nel campo della musica folklorica e sociale. Collabo-ratore della RAI, per cui ha ideato e realizzato diversi documentari, con il film Il Mistero di Rossini è stato finalista al Mid-fed di Cannes nel 1990. Alla Biennale Musica di Venezia del 1991 ha diretto con Sylvano Bussotti sei Video-giornali sul-l’avanguardia musicale. Sui temi dell’incontro ha pubblicato Dal profondo dell’inferno. Canti e musica al tempo dei lager (Venezia, Marsilio, 2001).

 

 

Dopo il nostro arrivo al campo [di Birkenau] e la scomparsa di mia moglie e dei miei genitori, fu la musica che mi permise di non soc-combere alla disperazione, perché un uomo senza speranza era già un uomo morto. La musica mi permise di sopportare l’insopportabile. […]. Malgrado il dolore mi ritrovai nel mio elemento. La mattina si suonava-no delle marce mentre le squadre uscivano per il lavoro. Poi si restava soli e si suonava musica classica. […]. Grazie alla musica non sono mor-to moralmente.

Jacques Stroumsa, Violinista ad Auschwitz, p. 6

 

     
il finale musicale del pomeriggio                   Da sx, Settimelli, Stroumsa e Saletti


 




 

giovedì 15 maggio 2003

Leoncarlo Settimelli

 VERONA - Cinquantotto anni fa uscì vivo dal lager di Gusen, dove era stato trasferito da Auschwitz. E a novanta anni compiuti, più vispo che mai, ha accolto l’invito della Società Letteraria di Verona per venire a parlare della propria storia di violinista dell’orchestra del lager, ripetendo che quel violino gli ha salvato la vita. Sto parlando di Jacques Stroumsa, ebreo sefardita di Salonicco, che ha dedicato la propria esistenza al ricordo della Shoah. Gli ero accanto, qui a Verona, ad un tavolo che prometteva ufficialità e che invece si è presto trasformato in una ribalta ed è stato impossibile non essere travolti dai suoi ricordi. Che egli tuttavia non drammatizza, e anzi offre alla platea col sorriso dei vincitori, non dei vinti. Pensavo infatti, seguendo le sue parole, come avesse ragione quel partigiano torinese che tornato dal lager nazista affermava: «Siamo noi, alla fine, che abbiamo vinto…».

La Società Letteraria di Verona è un ambiente un po’ austero, ma entrando ti accorgi subito di che pasta sono fatti i suoi animatori che mi mostrano la targa dedicata ai soci che furono espulsi con le leggi razziali fasciste del 1938. Scorro i nomi e vedo i Bassani, i Lombroso, i Finzi, gli Artom: una ventina di soci che di fronte a quella decisione provarono a protestare, sostenendo che se i provvedimenti razziali riguardavano le istitutuzioni pubbliche, che c’entrava una associazione privata come la Società Letteraria? Ma nulla da fare: chi dirigeva il consesso volle uniformarsi a quelle leggi. Dopo la guerra, quegli stessi uomini decisero di riammettere gli espulsi con una caritatevole lettera circolare. Non si accorsero neppure che due di loro erano morti nei campi di sterminio. Ma i soci di oggi hanno voluto ricordare quell’ignominia e la targa è la prima cosa che si vede entrando nella sede, che sta proprio di fronte all’Arena.

Jacques Stroumsa ha portato con sé, come fa sempre, il violino, Aveva cominciato a suonarlo a 12 anni, studiando con il maestro italiano Livio Marchesini, originario di Padova, insegnante a Salonicco. Salonicco era allora chiamata la Gerusalemme d’Europa e nella comunità ebraica, assai numerosa, vi si parlavano tutte le lingue (Jacques infatti si esprime bene anche in un misto di italiano e spagnolo). Suo padre decise di farlo diventare violinista, ma Jacques studiò contemporaneamente ingegneria. Perché, spiega, o uno diventa un grande virtuoso o e meglio che faccia un’altro mestiere. Come poi ha fatto. Andato a vivere in Israele, è l’autore del progetto della pubblica illuminazione di Gerusalemme, cosa che gli attirò le critiche di molti ortodossi, i quali gli rimproveravano di fare troppa luce per le strade, mentre la luce deve venire esclusivamente da Dio. Lui rispondeva tuttavia che se un cittadino cadeva e si faceva male non era a Dio che si rivolgeva, ma al comune, per ottenere un risarcimento danni.

Tornando al ricordo del lager, Stroumsa (che venne deportato con tutta la famiglia) racconta di quando scese dal treno col violino nella mano sinistra e nella destra la mano di sua moglie Nora. Immediatamente una SS lo colpì prima sull’uno e poi sull’altro avambraccio, sequestrandogli il violino. Ma quando dichiarò di saper suonare lo strumento, Jacques venne inserito nell’orchestra del campo che aveva il compito di suonare per la marcia che accompagnava l’uscita dei prigionieri dal campo.

Gli chiedo oggi quali fossero quelle marce, ma lui non ne ricorda i titoli e accenna a qualche motivo. «Marce militari tedesche», conferma con svogliatezza, come se preferisse dimenticare di averle suonate . Quello che gli piace ricordare è che invece, nei momenti in cui non era impegnato nell’orchestra, suonava Mozart e Beethoven. Gli chiedo anche se suonassero Wagner, ma lui smentisce e trova fra l’altro che la musica di Wagner sia bellissima e non capisce perché i suoi connazionali non la vogliano ascoltare. Niente Wagner, dunque. E canzoni e operette? Stroumsa tira fuori allora dall’astuccio del violino una piccola partitura che da noi si chiama «orchestrina», cioè un libretto di fogli staccati che viene mandato ai piccoli complessi, completi di partiture per i diversi strumenti. Quella che mi mostra è solo la parte per violino, ma non ricorda di averla mai suonata, né perché gli sia capitata tra le mani. Ma per me, ricercatore di musiche e canzoni suonate nei lager, questa partitura è importantissima. Si tratta di un Fox tror dal titolo “Abends in der kleinen Bar” (Serata nel piccolo bar), gli autori sono Conny Graff e Edmund Kötscher, l’edizione è del 1938 e c’è un timbro sopra che certifica che la partitura è appartenuta alla «Häft. Kapelle (Coro dei prigionieri) KL (Koncentrazion Lager) Auschwitz» Dunque, qualcun altro suonava e cantava – come peraltro già sappiamo – canzonette come questa ad Auschwitz, probabilmente per allietare compleanni del capo del lager e dei suoi immediati sottoposti. O forse per rendere meno meccanica la visita delle SS nei bordelli.

Stroumsa non parla di questo, perché lui testimonia solo cio ciò che ha visto e ad Auschwita e a Birkenau sa di aver visto l’inferno. Poi mostra il proprio numero di matricola, e un triangolino, tatuati sull’avambraccio sinistro, proprio vicino al gomito. Non sa del putifero scatenato da Nolte, a Roma, ma una sua affermazione cade a proposito, quando dice (ed è l’unica volta che si infervora) che «chiunque neghi o voglia ridimensionare ciò che è accaduto nei lager, venga a discutere con me!».

Poi tace di colpo e afferra il violino e suona una melodia struggente che esce dalle finestre aperte e sembra voler sfidare i kolossal lirici che stanno per prendere il via nell’Arena. E’ una melodia straziante: si tratta di Eli Eli, una canzone che una partigiana internata scrisse ad Auschwitz prima di morire. Alla fine il pubblico è in piedi ed applaude per buoni cinque minuti, decretando a Jacques un tributo commosso e pieno di significati. Ma non basta, Da una porta laterale si sente la stessa melodia ripresa da Angel J.Harkatz, accompagnato da un violino e da una fisarmonica. Karkatz, ebreo argentino, è il cantore della Sinagoga di Verona ed ha una voce portentosa. Tutto improvvisato, ma l’effetto è grande e l’incontro con Stroumsa (e col sottoscritto e Carlo Saletti) si trasforma in una gran festa, cui partecipa anche il gruppo Meshuge Klezmer Band. Le finestre aperte rimandano il suono in tutta Piazza Bra’ e sono sicuro che se ne saranno beati tutti i turisti che in questa stagione la affollano. E scopro contemporaneamente che in quella stessa ora di quello stesso 8 maggio di 60 anni fa, Stroumsa era sceso dal treno della morte ad  Austchwitz e alla stessa ora di quello stesso 8 maggio di 58 anni fa egli aveva ottenuto la libertà a Gusen. La festa che la civilissima Società Letteraria di  Verona gli stava tributando non poteva essere più puntuale.

 


 

lunedì 12 maggio 2003  pag. 20

Il suono obbligato . Il «violinista ad Auschwitz»
Stroumsa ricorda «Eravamo cose»
Settimelli: la musica nei campi nazisti
Fabio Zannoni

 Il giorno in cui incontriamo Jacques Stroumsa, è l'8 maggio, a sessant'anni esatti dalla data del suo internamento nel campo di sterminio di Birkenau, iniziato l'8 maggio del 1943; una data che per una bizzarra coincidenza del destino è stata anche quella della sua liberazione, avvenuta due anni dopo, nel lager "Gusen II", nei pressi di Mauthausen. La storia di Jacques Stroumsa, classe 1913, potrebbe essere quella dall'esito tragico di tanti ebrei vissuti in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale ma la cui salvezza finale, come per il pianista raccontato da Polanski, è in qualche modo legata alla musica, alla sua capacità di suonare il violino, da amateur, come lui stesso si definisce, nonché dalle sue competenze di ingegnere. Perciò fu subito ingaggiato nell'orchestra di Birkenau, dato che in ogni campo, anche se è difficile immaginarlo, veniva allestita un'orchestra di prigionieri, in un perverso echeggiare di una colonna sonora fatta di marce, dei grandi capolavori di Mozart, Beethoven e dei canti di lavoro dei prigionieri.
La sua parabola l'ha voluta raccontare in un libro (Jacques Stroumsa, Violinista ad Auschwitz, Brescia Morcelliana, 2000), tradotto in numerose lingue ed è a Verona per presentarne i contenuti in una conferenza alla Società Letteraria, nell'ambito dei due incontri, ideati da Carlo Saletti, aventi per tema "Il suono obbligato, la musica nell'epoca del totalitarismo"; in un incontro nel quale è anche presente il musicologo e ricercatore Leoncarlo Settimelli, autore di un libro che affronta il tema della musica nei campi di concentramento (Dal profondo dell'inferno. Canti e musica al tempo dei lager, Venezia, Marsilio, 2001).
Chiunque sia uscito vivo dai lager nazisti è stato segnato profondamente e in maniera indelebile dal contatto quotidiano con la morte. All'opposto di chi ha preferito rimuovere, Stroumsa, è fra coloro che ritengono indispensabile il ripetersi della testimonianza, il racconto di tutto ciò che ricorda di quell'inferno. Dalla tempra robusta e indomita, all'età di novant'anni, sta girando il mondo per "raccontare", un raccontare che è per lui diventato un imperativo categorico perché nulla vada dimenticato; e lo fa in un italiano infarcito di parole spagnole, francesi e greche, lui ebreo sefardita di Salonicco, dalla voce sottile, dalla piccola statura, sempre con il suo violino appresso. Mostra evidente il suo tatuaggio sul braccio, il numero 121 097, perché dal momento dell'entrata nel campo "Noi non eravamo più uomini, eravamo stücken, cose perché avevamo perduto non solo il diritto di essere persone, ma anche il nome: c'è un numero e questo numero è inciso nel sangue!".
Ma in quell'atmosfera, com'era possibile e perché i tedeschi organizzarono in maniera così capillare l'attività musicale nei lager? "Le SS erano crudeli, erano banditi, non erano umani. Niente era umano, ma non erano stupide e gli uomini con la musica dimenticavano". E' quindi un continuo di vicende, aneddoti che affiorano, recitati ormai a memoria, quasi che il ricordare sia divenuto per lui una sorta di esercizio costante. Il momento della "selezione" da parte di un SS: "Quando suonai il concerto in la maggiore di Mozart, dopo 10 minuti mi disse: basta io ti ammiro suoni benissimo, ti condono la mia intenzione di bastonarti, perché anch'io sono musicista, sono pianista".
Un rammentare che rievoca la moglie e gli affetti perduti, le sue amicizie tedesche, come quel signor Bosh per cui lavorò come ingegnere ad Auschwitz, degli amici salvati, dei tradimenti e delle responsabilità e delle connivenze con le autorità tedesche, da parte dell'allora gran rabbino di Salonicco, nella deportazione di tutta la comunità ebraica di quella città; e poi ancora della sporcizia, delle pulci e del funereo periodico transitare dei Sonderkommando, i portatori di cadaveri dalle camere a gas ai forni crematori.
E' Leoncarlo Settimelli a spiegarci come fosse organizzata e favorita la musica nei campi, fin dall'inizio della loro costituzione, dal '33, all'epoca dell'ascesa di Hitler, prima della "soluzione finale": "Vi venivano richiusi molti degli oppositori al regime: registi teatrali, attori di cabaret, musicisti e tutti quelli che nella Germania pre-hitleriana avevano un'attività anche forte di propaganda per conto della sinistra. Nacquero canti come il "Moorsoldaten" che descriveva le condizioni di vita dei detenuti che andavano a lavorare nelle paludi e che divenne anche molto conosciuto, perché uscì dal campo, fu ripresa da un grande cantante che fu Ernest Bush, arrangiato poi da Hans Eisler, collaboratore di Brecht".
Ma ci parla anche di una straziante ninna nanna di un Sonderkommando che deve seppellire il suo figlioletto di tre anni; ma anche di canzoni ironiche che scherzano con la morte in un allucinante humour nero, di tutta una realtà nella quale la musica giocava un ruolo di forte aggregazione e sostegno perché anche lì "il tempo doveva passare".